La vicinanza sempre
più stretta e la maggiore frequentazione dei nostri amati animali domestici ci sta rendendo sempre più consapevoli del fatto che essi ci stiano mettendo in scena diverse rappresentazioni di aspetti della nostra vita quotidiana in maniera sempre più lampante.
Che questo dipenda dal fatto che è cambiato il livello della nostra attenzione nell’osservarli, o dal grado di intimità con le nostre vite cui abbiamo concesso loro di accedere, o da entrambi i fattori o altri ancora, non possiamo far a meno di constatare quanto potere assorbente abbiano nei confronti dell’ambiente in cui sono immersi, noi umani compresi.
E’ vero che il regno animale è per noi umani un esempio di “naturalezza”, nel senso biologico di appartenenza ad un progetto ciclico in cui morte-vita-cambiamento-trasformazione sono varie tappe, che si rincorrono e ripetono, di un’unica rappresentazione, e in questa messinscena il ruolo dell’animale selvatico è puro e fiero; ma le variegate sfaccettature con cui i nostri animali domestici reagiscono all’ambiente e alle persone con cui si interfacciano, si allontanano spesso di molto dal modello specifico determinato dalla loro storia evolutiva.
E’ così che, come custodi di un rappresentante del regno animale, vediamo sovente rispecchiato nel loro comportamento alterato, nelle loro emozioni fuori equilibrio e perfino nelle loro sofferenze fisiche, qualcosa che parla di noi o del nostro ambiente prossimo.
Spesso nella mia professione, prendendomi cura degli animali che vivono in famiglie umane, all’enunciazione di una diagnosi definitiva o presunta, mi sento dire che quel problema ce l’ha già, o già avuto, qualcuno in famiglia, se non addirittura chi me l’ha portato alla visita….diabete, ictus, problemi cardiaci, dermatologici, neurologici, ma anche stati ansiosi, o fobici, bisogno di continuo movimento, stanchezza e depressione.
Come quel vecchio detto popolare: “Il cane assomiglia al suo padrone”, ma qui ci rendiamo conto che non c’è nessun padrone, ma un essere umano che si è preso in custodia un essere non umano, e che con lui pare condividere non solo momenti di gioco e felicità e compagnia, ma anche stati di disagio e di vera e propria sofferenza.
E’ così che un momento di sofferenza del nostro amico animale può diventare uno spunto di partenza per capire anche qualcosa di più di noi, o come una cartina tornasole che evidenzia in che punto ci troviamo nelle faccende delle nostre vite.
Come supporto terapeutico per l’animale che abbiamo in custodia trovo formidabile l’uso dell’approccio omeopatico, anche come continuità al discorso fatto finora.
L’omeopatia (la “cura attraverso il simile”) sfrutta le proprietà “patogenetiche” di un rimedio (farmaco) preso dal mondo della natura (vegetale, minerale o animale che sia), e va ad usare quelle proprietà per curare una malattia “simile” presente nell’organismo malato, di modo che la malattia “artificiale” scacci da esso quella già presente.
Per ottenere questa forza terapeutica senza apportare danni all’organismo trattato, il rimedio è stato precedentemente diluito e dinamizzato, attraverso quel processo che in omeopatia si chiama “potentizzazione”.
Ecco allora una prospettiva nuova attraverso cui vedere i nostri compagni animali come dei rimedi omeopatici, potentizzati dall’amore che mettiamo nel prenderci cura di loro e dalla nostra ricerca di consapevolezza per andare oltre alla visione degli accadimenti come se fossero solamente cose precipitate casualmente nella nostra vita.
E’ questa prospettiva che mi ha permesso di accedere ad una cura maggiormente efficace per Briciola, una gattina sofferente di problemi deambulatori molto resistenti a svariati trattamenti, selezionando il rimedio omeopatico a partire dal sintomo, presente e casualmente dichiaratomi dalla sua custode, della “paura di rimanere paralizzata”; o che mi ha fatto riconoscere nelle ripetute dermatiti di Cocò, canina shih-tzu, i conflitti di separazione (vedi medicina di Hamer) che viveva lei ma probabilmente anche la sua custode per i continui allontanamenti del marito dalla famiglia per motivi di lavoro; o che mi fa pensare, nei ricorrenti episodi di vomito di Lady, canina meticcia tipo pinscher, a qualcosa di difficilmente digeribile nella situazione familiare in cui si trova; per non parlare dello psicodramma che anni fa mise in scena il mio amato Alì, cane meticcio all’epoca di 13 anni, quando, attraverso frequenti e ripetuti episodi di soffocamento per una paralisi laringea, mi fece vivere, devo dire in modo traumatico, questa mia grande paura: e dopo la sua scomparsa questa paura del soffocamento si è affievolita sempre di più, come se avesse appunto agito un rimedio omeopatico che, all’inizio, può dare anche un lieve aggravamento, ma poi riporta un equilibrio profondo e duraturo.
Riconoscere per conoscersi
di Riccardo Lucchesi
La convivenza uomo-animale si è modificata nel corso della storia della razza umana, da un primitivo rapporto di competizione del tipo preda-predatore o di semplice osservazione dello stato selvatico di altri esseri viventi, ad un avvicinamento che per alcune specie è diventato quel processo che chiamiamo “domesticazione”.
La parola viene dal latino “domus”= “casa”, e sta a significare l’azione concorrente di chi ti fa entrare in casa e di chi decide di entrare; noi umani, con la nostra visione antropocentrica, abbiamo assunto che la casa fosse la nostra, e che qualcun altro diverso da noi piano piano si fosse avvicinato e avesse iniziato a interagire in maniera diversa dalla vecchia modalità fuga o attacco.
La prima forma di avvicinamento dell’animale all’uomo si può dire che sia stato il “commensalismo”, cioè quando animali selvatici cominciarono a sfruttare le risorse degli esseri umani.
Per la maggior parte delle specie animali il processo di avvicinamento all’umano si è fermato qui, ma per altre il discorso è andato molto avanti, fino ad arrivare per alcune specie ad un intervento attivo e consapevole da parte dell’uomo sul controllo del processo della loro evoluzione, quel fenomeno che va sotto il nome di “selezione artificiale”.
Che tutto il processo abbia un innesco di tipo utilitaristico da entrambe le parti non c’è dubbio, e se valutiamo il successo di queste partnership dal punto di vista della sopravvivenza e quindi proseguimento della specie è molto evidente: nessuna specie addomesticata si è estinta o corre dei pericoli attuali di estinzione, mentre di tantissime specie selvatiche si sono ormai perse le tracce e la memoria da secoli, ed altre sono seriamente minacciate dall’intervento squilibrato che come razza umana attuiamo sempre più sui territori che abitiamo o sul mondo selvatico di cui andiamo a sfruttare le risorse.
Dall’altra parte anche la storia del genere umano sarebbe stata molto diversa senza la presenza di animali addomesticati, e sicuramente più difficile il passaggio da un livello di mera sopravvivenza ad una vita più agiata e ricca di innovazioni che portassero abbondanza e possibilità di crescita e sviluppo.
Ma c’è un discorso altro, rispetto alle considerazioni della biologia evoluzionista, che a volte mi spinge a pormi delle domande riguardo al processo della domesticazione. Perché il gatto selvatico e non l’ocelot, perché il lupo e non la iena o il coyote, perché il cavallo e non la gazzella o la zebra?
Nell’avvicinamento di questi anima-li alla specie umana forse c’è un progetto che riguarda entrambi ma che ancora non abbiamo molto chiaro, o forse si sta lentamente rivelando davanti alla nostra coscienza di uomini e donne che hanno a che fare con un animale come loro amico e compagno di viaggio per un tratto della loro vita.
Le culture sciamaniche vedono gli animali come portatori di “doni” per noi umani, ciascuno fornito di qualità che, entrando in risonanza con la coscienza umana, ne permettono un ampliamento e una maggiore espressione delle proprie potenzialità.
Gli animali che hanno superato la soglia delle nostre case, che si sono sdraiati sul nostro tappeto o hanno preso un posticino sui nostri divani, che hanno imparato a leggere le nostre intenzioni e ci accompagnano ad esplorare l’ambiente esterno aiutandoci a conoscerlo meglio o in modo diverso, che raccolgono i nostri stimoli a giocare e li portano su terreni non ancora percorsi, tutti quegli animali che hanno imparato sempre più profondamente ad entrare in empatia con una specie tanto diversa dalla loro come è quella umana, ci donano anche un grande insegnamento, fornendoci di uno specchio quotidiano naturale e spietato per i nostri atteggiamenti, un po’ come fanno i bambini, ma da un punto di partenza ancora più istintivo, oltre che “trans-specifico”.
Per chi convive con un essere non umano casalingo, diventa sempre più difficile non notare questo fatto: quell’essere a quattro zampe che ci scodinzola o ci fa le fusa, che ci viene a cercare oltre la necessità e per puro desiderio di condivisione, in qualche modo sta finendo per rappresentare anche una parte del nostro mondo interiore, o mimando le modalità di relazionarci col nostro ambiente prossimo, o mettendoci alla prova schiacciando (inconsapevolmente?) dei bottoni per noi molto sensibili.
E tutto ciò lo fa con le sue emozioni, che incredibilmente sono diventate leggibili come e a volte più delle nostre, come se si fosse sdoppiato in un essere madrelingua quando vuol comunicare con altri esseri della sua specie, e un traduttore poliglotta per i suoi amici umani.
E tutto ciò lo fa anche con il proprio corpo, che si vitalizza o si indebolisce, si rilassa o si contorce, rinvigorisce con l’età o invecchia precocemente, si ammala, muore o non vuole andarsene.
Allora: chi assomiglia a chi? Non è questa domanda che importa, ma percepire con tutta la chiarezza della nostra mente aperta quello che un essere proveniente da uno stato selvatico con occhi furibondi è venuto a raccontarci, ovviamente di sé ma profondamente anche di noi, ed esprimere gratitudine attraverso il prendersi cura, di se stessi e di quello che abbiamo attorno, animato e inanimato, animale e, al fine, della propria anima.
La morte che dà vita
di Riccardo Lucchesi
“Vivi come se dovessi morire domani; impara come dovessi vivere per sempre.”
L’accettazione della morte come cambiamento inevitabile e la comprensione della vita come assoluta presenza nel qui e ora trova molte difficoltà nel nostro modello di vita occidentale.
I nostri amici animali possono in questo essere dei grandi insegnanti, per come vivono nella loro naturalezza e per come possono morire allo stesso modo.
Nel mondo naturale c’è il tempismo, i cicli e le stagioni; nel mondo umano c’è il tempo, che ci serve per organizzarci e ci crea l’illusione di poter controllare.
Noi vorremmo che il nostro amato “quattrozampe” non se ne andasse mai, quasi fosse eterno, oppure, quando sembra ineluttabile, iniziamo a programmare il tempo della sua uscita (un tempo comodo per noi) o ad arrancare emotivamente attorno alla sua preparazione alla morte e oltre la sua dipartita.
Ma il tempo non ha a che fare con la morte, il tempismo e lo stare fuori dal tempo si.
E’ difficile ma importante distinguere quello che non è più accettabile per noi da quello che non è più accettabile per loro, riguardo alla loro vita, e alla loro morte.
Se in quei momenti di estrema difficoltà, per degli esseri cronologici come siamo noi, guardiamo il nostro amico negli occhi, lo ringraziamo per i doni che ci ha fatto e gli parliamo dell’apprezzamento che abbiamo riguardo alla sua vita, forse avremo più chiarezza nel cosa fare.
Perché in fondo siamo noi umani i determinatori, in quanto dotati del libero arbitrio, ma l’ascolto dell’altro ci potrà portare in spazi nuovi e diversi riguardo al nostro attaccamento a quel fenomeno che si chiama vita, e riguardo all’accettazione dell’altra faccia della stessa medaglia, che è la morte.
In quei momenti di dolore, imparando a lasciar andare ma rimanendo connessi con se stessi e l’altro da noi, forse potremo andare incontro ad una sana elaborazione del lutto, e alla fine potremo scoprirci anche arricchiti di quei doni che il nostro animale ci ha lasciato con il tempismo della sua uscita, e allora toccheremo attraverso esperienza vissuta una delle leggi universali, quella che dice “La morte dà vita”.
I nativi Americani associano a noi esseri umani, a seconda di quale periodo dell’anno siamo nati, un animale Totem di nascita.
Per i nativi Americani ogni animale porta un dono, una “medicina”, che sono delle qualità che noi umani possiamo fare nostre per poter camminare in equilibrio ed armonia sulla Terra, portando bellezza a noi stessi, alla vita e agli altri.
L’animale Totem di nascita è l’espressione delle più alte potenzialità di chi veramente noi siamo, e ci può dare indicazioni sui principali “temi” con cui ci confronteremo nella nostra vita.
L’animale Totem di nascita è lì pronto ad aiutarci a tirar fuori il nostro sé naturale e ad esprimere la parte più autentica di noi stessi.
Di seguito verranno date indicazioni che derivano dagli insegnamenti degli anziani dei Capelli Intrecciati, dal sentiero della Dolce Medicina della Danza del Sole, ma già può essere utile e interessante andare a vedere le caratteristiche etologiche e comportamentali del proprio animale Totem, per farci un’idea del potenziale dono che abbiamo a disposizione come diritto di nascita.
Chi ha il Coguaro come animale Totem di nascita ha a disposizione un grande insegnante di come avere equilibrio nel movimento e nel cambiamento, e questo aiuta a fare della morte un’alleata.
Il Coguaro ci sostiene nella focalizzazione sulle nostre priorità nella vita, tenendoci lontano da resistenze e distrazioni, e partendo da uno spazio di rilassamento.
Insegnando come danzare la vita in equilibrio aumenta l’energia totale del nostro corpo (orende); il Coguaro è anche un guaritore di muscoli, ossa e giunture.
Supremo maestro di sopravvivenza, ci insegna a stabilizzarci e ad imparare a fare qualsiasi atto fisico senza ferirci.